David Bowie è passato a miglior vita poche ore fa, con immenso dispiacere per tutti gli appassionati di musica. La realtà è però una sola: una simile leggenda, un artista così talentuoso, visionario e creativo ed in attività per mezzo secolo, non potrà mai del tutto abbandonarci, David Bowie occuperà sempre un posto nei cuori di tantissima gente, e la sua musica continuerà a risuonare, nonostante tutto, perchè l’uomo ha dei limiti, ma l’ Arte è un qualcosa che non conosce confine.
Due anni fa nessuno si aspettava che l’interprete avrebbe rilasciato “The Next Day”, il suo primo disco dopo dieci anni ed il primo album di materiale del tutto inedito dal 1999, con “Hours…’.
Dopo il malore sul palco avvenuto nel 2004, la sua relativa inattività negli ultimi dieci anni è stata attribuita alla sua salute cagionevole, ma quando il primo singolo “Where Are We Now” è arrivato, quelle voci sono state cancellate con grande sorpresa. Lo stile di produzione e la strumentazione rock di quel disco fecero pensare ad un progetto realizzato con meno cura, ma in realtà come ogni lavoro di Bowie, il prodotto era stato attentamente calcolato e realizzato. Per un album che inizia con una canzone che dichiara: “io sono qui, non sto proprio morendo” era chiaro fin dall’inizio che Bowie avrebbe avuto ancora da dirci qualcosa.
L’intera carriera di Bowie è stata una serie di stop e ripartenze: cambiamenti notevoli di qualità dei progetti; ad un certo punto si allontana dal rock per abbracciare il soul, fino alla dance ed il grunge, senza mai snaturarsi del tutto. Eppure, Bowie continuava ad affermare che il suo pubblico dovesse concentrarsi sul presente più che sul passato, al fine di poter godere pienamente di un patrimonio (la musica) in continuo accrescimento.
Per questo, noi vogliamo omaggiarlo parlando non di uno dei suoi più vecchi e leggendari album, ma dell’ultima uscita, “Blackstar”, il suo ventisettesimo album in studio, rilasciato proprio pochissimi giorni fa.
Bowie ci aveva dimostrato di essere ancora con noi a tutti gli effetti, tanto fisicamente, quanto creativamente.
Il nostro primo assaggio di Blackstar è stato il brano “Sue (Or In A Season Of Crime)”, già contenuto nella compilation di tre dischi “Nothing Has Changed”, e riproposta ora in una versione inedità, più puramente rock.
“Sue” ci mostra un Bowie più in forma che mai, con la sua voce che sfreccia su un rullo di tamburi. Suona “jazzy”, presenta infatti tutte le qualità tipiche dello stile jazz, con l’aggiunta di un songwriting molto libero. L’impatto del brano è stato minimizzato dalla sua collocazione in una compilation, ma si tratta di materiale audace che ha riaffermato la reputazione dell’artista, creativamente imprevedibile e vitale.
Il resto di Blackstar non delude, e mischia un sound jazz a concetti come brutalità, drammaticità ed alienazione. Bowie si lascia sostenere dal sassofonista modern jazz Donny McCaslin e la sua band, scelta soprattutto per la loro flessibilità. Il sassofono, che rimane primo strumento, fu proprio quello al quale si avvicinò Bowie da ragazzino assieme al fratello, che si suicidò anni dopo a causa di una malattia. Questo potrebbe spiegare perchè Bowie si serva del sassofono per sottolineare momenti cupi e misteriosi, piuttosto che gioviali e scanzonati.
Una tematica già affrontata da Bowie e ripresa in questo disco è quella del nichilismo. Secondo l’artista esiste un contrasto continuo tra gioia di vivere e sentimenti di annientamento. Questi due filoni si scontrano continuamente in “Blackstar”, con imprevedibili assoli jazz, e vocal dal sound spirituale, che parlano di storie senza tempo e senza corpo.
Ricordiamo che si tratta di un progetto realizzato a 68 anni, ètà in cui l’artsita non ha “nulla da perdere“, come canta in “Lazarus“. La title track “Blackstar” ci fa meditare con un sound creato dall’unione di basso, percussioni che galoppano letteralmente, finchè tutto non si mescola ad una ispirazione funk ben evidente . “Girl Loves Me” è momento molto stravagante del progetto, spogliato da qualsiasi vincolo con il rock o con il jazz, Bowie mixa una serie di dialetti, come il Nadsat, uno slang artificiale derivato dall’inglese con numerose influenze russe (da Arancia Meccanica), ed il Polari, parlato nel quartiere Soho di Londra.
“Tis a Pity She Was a Whore” prende il nome da una controversa commedia del diciassettesimo secolo in cui un uomo fa sesso con la propria sorella, solo per pugnalarle il cuore nel bel mezzo di un bacio. Nell’album ci sono dei riferimenti alla Prima Guerra Mondiale, al furto, ed altri episodi che indicano la ferocia dell’uomo, e Bowie ne parla adattando il proprio registro, servendosi di un linguaggio popolare, caratterizzato, come abbiamo visto, dalla presenza di influssi dialettali.
L’album parla dunque di malvagità e di come essa possa intossicarci, attingendo dalla storia e mescolando con l’immaginazione, ma il progetto si conclude con due ballate malinconiche tipicamente nello stile di Bowie. “Dollar Days” è la confessione di un’anima inquieta, che non riusciva a passare i suoi anni d’oro beatamente in vita appartata in una campagna inglese. “I Can’t Give Everything Away” riprende il sample di un suo vecchio brano,”A Career in a New Town”.
E ‘difficile immaginare cosa voglia dire doversi costantemente paragonare alll’incredibile grandezza del lavoro svolto in passato, e tanto meno avere questa eredità sempre ad oscurare le vostre più recenti creazioni, ma con Blackstar, Bowie ha fatto un disco non in contrasto con il suo passato, mentre riafferma se stesso come un artista in grado di dar vita a musica stimolante e gratificante. E’ una dichiarazione di qualcuno che non vuole vivere nel passato, ma al quale, per la prima volta, piacerebbe che gli altri dessero uno sguardo.
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