Già in un articolo dei giorni scorsi abbiamo sostenuto come la fruizione e il consumo di musica siano notevolmente mutati rispetto al passato, con un pubblico che per lo più non acquista copie fisiche o digitali di singoli e album, ma preferisce ricercare contenuti gratuiti e selezionabili sulla Rete.
In un contesto radicalmente diverso, l’industria musicale, per cercare sempre di mantenere elevato il livello dei profitti, ha escogitato stratagemmi che oggi si sono incanalati in due tipologie di piattaforme: i servizi di streaming, che però non sembrano così efficaci come le aspettative potevano far pensare, e, soprattutto i siti di contenuti audiovisivi, che gratuitamente offrono al pubblico una vasta scelta di video musicali (caricati spesso dai canali ufficiali dei cantanti) e di cui il più famoso di tutti è senz’altro YouTube, a cui si appoggia la piattaforma VEVO.
Il sito, acquistato da Google ormai 10 anni fa, è stato forse ciò che più ha rivoluzionato il mercato discografico degli ultimi anni: non solo ha segnato il definitivo tramonto delle reti musicali, sempre meno affollate di video promozionali delle hit del momento, ma ha anche modificato il modo di ripartire gli introiti economici derivanti dagli stessi videoclip. Infatti, se prima erano puri strumenti pubblicitari, ora sono diventati delle rilevanti fette di guadagno per le major discografiche, grazie alle visualizzazioni sui canali ufficiali, a cui corrispondono determinati compensi. Il riconoscimento dato ai video musicali è stato inserito anche tra i nuovi parametri delle classifiche Billboard, insieme allo streaming che ormai affianca i quasi sempre magri numeri di acquisti delle copie digitali.
Più si visualizza, più i guadagni diventano alti. Ma non tutto è così roseo! Infatti, già nei mesi scorsi, tantissimi artisti sono insorti contro il portale di video sharing più famoso al mondo per una remunerazione troppo bassa rispetto al numero di visualizzazioni ricevute, richiedendo invece un compenso adeguato per il lavoro svolto, nonché per il successo ottenuto.
A marzo dell’anno scorso il celebre produttore R&B Rodney Jerkins, in arte Darkchild, considerò iniquo il pagamento concesso a Ryan Tedder, voce dei OneRepublic, per il video di Counting Stars (che allora aveva già avuto 600 milioni di visualizzazioni): la cifra ammontava solo a 900 dollari. Più avanti, ad ottobre, il produttore e CEO di Beats by Dr. Dre Jimmy Iovine, rivelò al New Establishment Summit di Vanity Fair un dato piuttosto sconvolgente: il consumo di musica era ricoperto da YouTube per circa il 40% del totale, ma gli ascolti e le visualizzazioni contribuivano soltanto al 4% del guadagno complessivo.
Adele rinunciò a caricare le tracce del suo nuovo album 25 su YouTube per compensi inadeguati e Nelly Furtado, dai microfoni del The Guardian, disse di non ritrovare trasparenza su questo sito, il leader dei Radiohead Thom Yorke accusò il sito con parole di fuoco:
“Youtube ha preso il controllo, come fecero i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. In realtà, è esattamente quello che tutti facevano durante la guerra, persino gli Inglesi: rubare l’arte dagli altri Paesi. Qual è la differenza ora?”
Perfino la Commissione Europea, ad aprile di quest’anno, ha portato avanti la questione sull’insufficiente retribuzione degli artisti. Il commissario europeo per il mercato unico digitale Andrus Ansip ha infatti richiesto al sito la giusta retribuzione da concedere per le visualizzazioni dei contenuti audiovisivi, avvalorando questa tesi con alcuni numeri. Dati alla mano, YouTube assomma 1 miliardo di utenti, una cifra enorme rispetto ai soli 30 milioni del servizio di streaming Spotify; eppure, quest’ultimo contribuisce in misura di gran lunga maggiore rispetto a YouTube nel guadagno dei musicisti.
Se fino ad ora abbiamo sentito soltanto rivendicazioni di diritti da parte degli artisti senza sentire la voce dell’accusato, nei giorni scorsi YouTube ha finalmente risposto a richieste e accuse con questo messaggio:
“Le voci degli artisti sono state ascoltate e stiamo analizzando i dettagli con le etichette discografiche e le organizzazioni di musica indipendente che si occupano direttamente con noi dei contratti. Detto ciò, YouTube ha pagato oltre $3 miliardi all’industria musicale, nonostante sia una piattaforma che lavora principalmente con gli ascoltatori di musica che in media ascoltano musica soltanto un’ora al mese – molto meno della media di chi utilizza Spotify o Apple Music. Ogni confronto di reddito con queste piattaforme è assolutamente privo di senso.”
La risposta del sito porta sì dei dati, e, tutto sommato, potrebbe essere letta come difesa fatta dallo stesso YouTube che non si definisce come piattaforma musicale, ma come sito generalista composto dai più disparati contenuti di cui la musica è solo una parte, nonostante, però, non si possa negare il fatto che, chi ricerca ascolti musicali gratuiti e legali, scelga come corsia preferenziale (e quasi obbligata) il sito in questione e non i servizi in streaming, che garantiscono di meno rispetto alla vastissima offerta di contenuti di YouTube.
Voi da che parte state?